Il corpo come muro: la molestia sessuale

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Ci sono casi in cui – e forse qualcuno non si troverà d’accordo – dovremmo imparare solo ad ascoltare, lasciando da parte, per qualche minuto, dati, numeri e definizioni. Ci sono dei casi in cui dovremmo imparare a controllare la nostra incline predisposizione al giudizio perchè in alcune storie abbiamo il dovere di entrare in punta di piedi senza arrogarci il diritto di esprimere un’opinione, ma solo un grazie alle persone che quelle storie le hanno subite e che ci donano fiducia, raccontandole. Ma non perchè noi non sappiamo cosa sia il dolore, ma perchè, forse, QUEL dolore non lo abbiamo mai vissuto.

Questo è uno di quei casi e questa volta non chiediamoci a quante donne accade, il racconto della realtà cruda, individuale, non trova legittimazione nei numeri, ma solo la conferma che accade molte, troppe volte. 

La mia penna ora si ferma, la penna di Costanza ora tace, e si pone in ascolto, come spero tutti e tutte noi, di Alessia. 

Il  corpo come muro: la molestia sessuale 

Sono Alessia e sono una giovane donna. Sono riuscita a definirmi in questi termini solo lo scorso anno, sebbene io abbia superato l’adolescenza da un po’, e possa vantare un titolo di laurea. 

La mia storia è fatta di quotidianità, di quelle poco entusiasmanti. È fatta anche di eventi, persone e traumi. Come tutti, credo. 

L’uomo, come individuo, in genere, inizia ad entrare in contatto col proprio corpo-o meglio a prenderne consapevolezza-, con la pubertà. 

Tendenzialmente questa fase della vita ordinata corrisponde al periodo scolastico delle medie, che è anche massicciamente ritenuto come il peggiore della vita di un adolescente. 

Io ho sempre avuto l’introversa tendenza a chiudermi a riccio, percependo addosso un senso di inadeguatezza rispetto ai miei coetanei. Mi sono sempre sentita fuori posto, un confuso pesce fuor d’acqua, investita da una nostalgia di un tempo che non ho mai vissuto. 

Il primo contatto col mio corpo di donna l’ho avuto a 12 anni circa, con la prima mestruazione. A casa mia si fece gran festa, e mi ritengo fortunata perché ho iniziato a manifestare i sintomi dell’indisposizione solo al liceo. 

Ebbene, il liceo. È proprio a questa altezza temporale della mia esistenza che ho vissuto il buio. Sebbene il mio periodo scolastico precedente fosse stato segnato da un grosso avvenimento fuori calcolo- che ancora oggi grava su di me con delle conseguenze-, il liceo è stato il mio inferno in terra. 

Non ricordo quanti anni precisamente avessi, se fossi al secondo o al terzo anno. Ricordo altri dettagli che mi hanno segnata inevitabilmente. No hay vuelta atrás, si dice in spagnolo. In effetti, questo evento è stato il mio punto di non ritorno. 

Per raggiungere il mio istituto, nella grande città in cui vivo, sono sempre stata obbligata a prendere i mezzi pubblici. E questi, si sa, sono un macrocosmo di variabili a prova di nervi saldi. Era mattina, ero su una delle prime metro, circondata da una folla di studenti  e di lavoratori. Ce n’erano così tanti da schiacciarmi contro le aste in metallo situate nel mezzo del vagone. Mi trovavo lì, con la testa inclinata, alla ricerca di un po’ d’aria e con la porzione superiore del mio corpo decisamente compressa. 

No, non è apocalittico questo racconto: è solo la quotidianità dei pendolari costretti a muoversi su mezzi pubblici poco frequenti. 

Davanti a me si trovava un uomo, di cui ricordo perfettamente l’aspetto e ogni dettaglio del suo volto, nonostante siano passati anni. Sorrideva in modo strano, e i suoi occhi piccoli mi si posarono addosso. Fin qui tutto bene, forse. La questione si fece più intensa nel momento in cui io avvertii altro oltre alle sue iridi addosso. 

Ricordo perfettamente il suo modo di grugnire così animalesco da paralizzarmi. Sì, perché non feci nulla. E non solo perché era impossibile muovermi. I suoni brutali del suo sporco piacere avevano preso il completo possesso delle mie orecchie, e mi ritrovai a pregare che finisse presto. Contavo le fermate che mi separavano dalla mia stazione, nonostante conoscessi il percorso e la durata a memoria, speravo che il conducente guidasse più veloce per abbreviare quel supplizio. 

Mi sono sentita sporca di una colpa che non mi apparteneva per anni, dato che avevo scelto di non parlarne. Ho seriamente cominciato a farlo nell’ultimo anno, e oltretutto non fu un caso isolato. 

Ho sempre sminuito l’accaduto, pensando che su una scala di gravità, una molestia è inferiore ad un abuso. Non ho la presunzione di farli equivalere neanche adesso, in realtà. 

Mi sono resa conto- e non senza fatica- che è altrettanto grave ciò che ho subito, e che purtroppo non smette di accadere. Teoricamente è solo una strusciata su un mezzo pubblico, praticamente mi ha bloccata per anni. 

Come può un evento spiacevole inferiore ai cinque minuti, avermi bloccata per circa dieci anni? 

Può. Perché il corpo può essere involucro, contenitore, tela, ma anche barriera, muro, gabbia. 

Il corpo può essere dono, ma anche limite. Il confine sottile che separa l’individualità propria, composita e molteplice, con un’altra individualità altrettanto complessa. 

Il corpo è un punto di incontro e di contatto con il mondo esterno

La mia scoperta del mondo altro, esterno da me, è iniziata con una violazione, un atto violento di cui non ero consapevole, e di cui sicuramente avrei fatto a meno. Perché da quel giorno ho vissuto una paralisi, che perdura e faticosamente si sta sciogliendo. Nonostante la cura, la ferita non si è cicatrizzata completamente, ed è sempre lì, a ricordarmi che la parte più animalesca dell’essere umano è sempre là fuori in agguato.

                                                                                                                                            Di Alessia Giurintano e Costanza Maugeri

Alessia Giurintano

Alessia Giurintano

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Violenza di genere

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