Il metaverso è un modo più immersivo di vivere il Web, un modo che si propone di creare una nuova realtà virtuale tangibile in cui è possibile utilizzare praticamente tutti i sensi e muoversi fisicamente in un ambiente virtuale. Per la vista è possibile utilizzare un visore, il quale è in grado di rendere l’esperienza virtuale molto realistica dal punto di vista visivo; per offrire un senso del tatto sono già disponibili i primi guanti e tute aptici[1]; per l’udito esistono cuffie in grado di isolare completamente il suono esterno; persino per gusto e olfatto, gli esperti stanno sviluppando delle maschere per simulare odori e gusti e tecniche che sfruttano la stimolazione termo-elettrica in regioni specifiche della lingua per inviare segnali al cervello[2].
Nel metaverso è possibile creare un proprio avatar, incontrare altri utenti, partecipare ai concerti, fare team building e persino creare proprietà virtuali: le esperienze vissute all’interno di questo spazio virtuale hanno comunque delle implicazioni reali sulla persona, sia in positivo che in negativo e quindi con effetti collaterali concreti.
Questo è ciò che è accaduto a Nina Jane Patel, ricercatrice e sviluppatrice nel metaverso nonché la prima donna ad avervi subito molestie sessuali, la quale afferma che la sua risposta psicologica è stata quella di vivere il trauma nella realtà a causa dell’effetto Proteus, ossia “la tendenza di provare nella realtà ciò che capita alle proprie rappresentazioni digitali, che siano avatar o profili social”. Tendenzialmente, il comportamento reale della persona si modifica in accordo alle proprie rappresentazioni digitali[3]. La ricercatrice dichiara di aver subito una molestia verbale e sessuale da alcuni avatar maschili, i quali l’hanno accerchiata, offesa verbalmente e le hanno scattato delle foto[4]. Un evento traumatico vissuto online può comunque “produrre effetti di lunga durata e sviluppare ansia, attacchi di panico e depressione”[5].
Proprio per questo motivo, ossia per i danni che un’esperienza virtuale può causare nella vita reale, è necessario regolamentare le azioni che si possono compiere nel metaverso. Tuttavia, è difficile pensare di porre fine con semplicità a qualcosa nel mondo virtuale che è una problematica aperta a livello culturale e sociale.
Sul tema è intervenuto Nick Clegg, Presidente per gli Affari Globali di Meta Platforms, argomentando che “le persone che vogliono abusare delle tecnologie troveranno sempre il modo di farlo”[6] perché in effetti esisterebbe una cosiddetta “Safe Zone” che permette di isolarsi e togliere la possibilità agli altri utenti di interagire con il proprio avatar, ma secondo l’esperta di abusi online Katherine Cross questo non sarebbe sufficiente e anzi, pensarlo, rappresenta un altro modo di scaricare la responsabilità solo sull’utente, quando in realtà potrebbe essere una questione strutturale[7].
La soluzione, persino nella realtà, non è infatti quella di isolarsi, non uscire di casa o autoescludersi dalla società onde evitare di subire molestie o abusi: d’altronde il problema non è della vittima, ma del carnefice.